She came to stay. Il sillage à trois firmato Timothy Han
Timothy Han non sceglie mai a cuor leggero i suoi abbinamenti olfattivi e con l’inaspettato twist aromatico fougere di She came to stay assesta un nuovo colpo da maestro alla profumeria moderna. Nel pluripremiato primo capitolo della sua saga, l’inquieto creatore di fragranze si intromette nell’intimità senza regole di una signora della letteratura mondiale: Simone de Beauvoir. Con l’attenta, sempre pertinente, forza introspettiva che lo contraddistingue, Han ci conduce – naso a naso – attraverso la rilettura creativa de L’invitata.
Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Simone de Beauvoir (L’invitata, 1943) se annusato ora, alla luce di tutte le successive uscite, She came to stay risulta essere l’alfa e l’omega dell’intera collezione Timothy Han/Edition.

L’importanza preminente riservata alla naturalezza degli ingredienti; la progettazione di fragranze che si “sfogliano” sulla pelle tatuandoci addosso romanzi famosi; la ricercatissima non convenzionalità di accostamenti e corredi iconografici; la volontà di rendere i fruitori dei suoi profumi protagonisti di una performance sensoriale e intellettuale, al contempo universale e personale: in She came to stay troviamo già allineati e riuniti i temi cardine della produzione artistica di Han. Una summa liquida della sofisticata recherche artistica che portò lo schivo Naso alla ribalta della profumeria mondiale.
E tuttavia, la massa cospicua di significati e significanti che satura She came to stay fin dal primo spruzzo non inficia per nulla la pura fruibilità di quella che appare la creazione più “chiara”, cristallina e prêt à-porter del designer canadese.

L’invitata è il romanzo d’esordio di Simone de Beauvoir ed è considerato un’opera fondamentale del moderno femminismo. La narrazione esplora con coraggio un argomento difficile: l’inserimento nell’ambito di una coppia di un terzo personaggio che ne muta l’intero equilibrio. Ambientato a Parigi alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, la narrazione ruota attorno a Françoise, la cui relazione aperta con il compagno Pierre diventa tesa quando formano un ménage à trois con l’amica più giovane (l’invitata del titolo) Xaviere. Il triangolo amoroso fittizio descritto nel libro ricalca la relazione fra Simone De Beauvoir stessa, l’illustre compagno filosofo Jean Paul Sartre e l’amica Olga Kosakiewicz.
De Beauvoir e Sartre – la “strana coppia” dell’Esistenzialismo, come potremmo definirla – vissero più di cinquant’anni di rapporto intimo senza mai vivere insieme, sempre intrattenendo legami sentimentali e fisici anche con altre persone. Le due gigantesche figure intellettuali seppero instaurare un profondo legame in grado di vincere il Tempo, le convenzioni sociali, ma anche i dissidi interiori e, quello che è ancora più incredibile, è che ci riuscirono usando metodi e “ingredienti “ che le persone comuni generalmente scansano: su tutti, l’infedeltà “condivisa”, canonicizzata, persino raccontata vis à vis fra i due a tavolino. Una vera e propria prova d’amore al rovescio: l’infedeltà come una sorta di riparo “contro le menzogne, i sotterfugi, le ipocrisie”.
Sicuramente, la componente principale di questo amore che scandalizzò un’epoca fu la libertà: libertà di “scegliere se stessi” per esistere; libertà di vivere “l’Altro da sé” senza condizioni; la libertà di godersi in un clima “illuminato” anche “l’Altro da noi” senza sensi di colpa. E non plus ultra, la libertà di cambiare e accettare che anche le altre persone possano farlo.
Fra la bella e acuta Simone e il geniale ma bruttino studioso (si mormora fosse anche poco profumato) Jean si instaurò una adesione assoluta circa lo stato naturale delle cose, perché se “gli uomini non sono spiriti, ma corpi in preda al bisogno”, come affermava il trasandato Sartre, l’infedeltà non poteva che specchiare la res natura nella sua regola, lasciando all’Amore un altro emisfero: quello della completa fiducia l’un nell’altro, una volta scevri dai ninnoli pericolosi delle passioni accidentali. Per una volta, ciò che forse funzionò nel reale (almeno per come la scrittrice e Sartre ci diedero a vedere) non trova identico destino nella finzione.
Ne L’invitata, infatti, l’inquieta Françoise è incapace di vivere l’eros in maniera totalizzante senza esserne consumata. In fin dei conti, non riesce ad accettare che l’amore per Pierre possa esistere senza la volontà di possederlo. L’incauta donna si lascia sommergere da una personalità che non le appartiene: lei stessa infatti invita la giovane Xaviere a stabilirsi da – e fra – loro, ma mano a mano le sue certezze vacillano, arrancano e sfiatano sui sentieri scoscesi prima della gelosia e poi della rabbia.
Pierre, capriccioso regista teatrale, sembra innaffiare con il proprio ego l’inaridito sentimento per Françoise e il crescente desiderio nei confronti della bella ed eccitante Xaviere trasforma l’acqua piovana in un torrente di dissapori psicologici. Lentamente, complice la mannaia oscura dell’incipiente guerra, il rapporto sentimentale inizia una trasformazione a spirale, sibilante e soffocante, mutando la pelle in un tragico rapporto di forza. Xaviere e la sua straboccante intemperanza minano lo spirito dei protagonisti rivelandosi non asservibile a qualsivoglia forzatura. L’amore ideale sospirato si inabissa nella contingenza; le anti-regole sono sovvertite a loro volta.
E anche L’invitata di Timothy Han scardina le convenzioni, nonché le convinzioni della profumeria; prendendo le mosse dalla fine del romanzo, riecheggia “il carattere evolutivo della natura del nostro senso di sé quando si trova dinnanzi a un mondo sull’orlo del cambiamento” (cit. dalla presentazione). Questa prospettiva di narrazione trova corrispondenza anche in senso tecnico: Han rovescia la piramide olfattiva e pone le dense note legnose di cedro, vetiver e il tanto amato muschio di quercia a volteggiare sull’incipit anziché sul fondo. Prima di descrivere i personaggi, delinea così il contesto di insicurezza in cui questi agiranno: la Parigi su cui incombe l’ombra del Nazismo è tratteggiata con indulgente grazia e amorevolezza, ammorbidendo gli angoli aromatici con il morbido guanto del labdano e il terreo orizzonte crepuscolare del patchouli.
Mutevole come poche, She came to stay forma un disegno estemporaneo davanti ai nostri nasi: Françoise e Pierre (o la Beauvoir e Sartre) entrano in scena l’una con i tratti piccanti, acuti e suscettibili della noce moscata e dei chiodi di garofano indonesiano; l’altro, nel pungente aromatismo del basilico. Le due personalità, la speziata e l’aromatica, si legano e fondono in una intossicante quanto stupefacente liason erbacea. Ad illuminare il duetto che si adombra sotto l’imponenza della percezione sensoriale, Han invita Xaviere nelle vesti libere di un succoso limone, appena colto dal ramo.
Il profumo raggiunge un temporaneo plateau che collima sul triplice filo legnoso/aromatico/fougere. Il ménage à trois esiste appieno… ma è un cuore che vive di un solo colpo: la sensuale intemperanza del geranio ghermisce il trio trascinandolo su un in un fondo offuscato ancora cangiante. Il tappeto di intenti disattesi, di confusi desideri carnali e morali, i sottili dissidi interiori non palesati sbocciano amaramente e hanno i contorni purpurei di un garofano ipnotico.

She came to stay è alfine un collage che appare differente a seconda dell’angolatura in cui lo si indossi: dalla trama del romanzo ora Han ci invita a perseguire la libera affermazione della nostra stessa personalità. Non a caso, la seconda edizione della pluripremiata fragranza è dotata del corredo artistico del losangelino Kirland Ash specializzato proprio in collage; quelli realizzati per She came to stay vogliono sondare la percezione di noi stessi in relazione con gli altri. Mescolando frammenti familiari in maniera inaspettata lo sconosciuto appare… E ciò significa (ri)conoscere appieno la nostra individualità.
Definita dalla stampa mondiale “beautifully addictive” (splendidamente assuefacente), She came to stay gioca sull’assoluta neutralità di genere. Forte, austera e tenace ma anche ribelle ed estremamente vibrante: una fragranza che Simone de Beauvoir stessa avrebbe apprezzato e riservato solo per celebrare “l’unico indubitabile successo” della sua vita: l’amore per Jean- Paul Sartre.
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