Psychédelique ~ Jovoy (Perfume Review)
Quando alle 8.30 di lunedì mattina il sole si decide finalmente a splendere dopo due giorni di intensa pioggia, per la piccola città rurale di Bethel – nello stato di New York – decisamente non è un giorno qualsiasi. E’ il 18 Agosto del 1969, c’è fango ovunque, odore di terra bagnata e sigarette “aromatizzate”, tutto intorno ci sono 30.000 anime sporche, sudate, stanche, tante in assoluto ma un’inezia in confronto alle 400.000 dei due giorni precedenti. Molti sono già tornati a casa, tra quelli che sono rimasti qualcuno dorme, altri amoreggiano, alcuni meditano quando dal palco una voce annuncia senza tanti fronzoli: “Ladies and gentlemen: The Jimi Hendrix Experience“.
Hendrix prende la parola, per un minuto, giusto il tempo di correggere l’annunciatore e spiegare al pubblico che la band che lo accompagna non è The Experience ma la neo formata Gypsy, Sun and Rainbows poi attacca la spina a una maestosa esibizione di oltre due ore che chiude nel più straordinario dei modi la maratona di quattro giorni di “pace e musica” del più grande evento Rock di sempre, il festival di Woodstock, riscrivendo l’inno nazionale americano con la chitarra elettrica e entrando di diritto nella leggenda.
La visionaria esecuzione in chiave psichedelica di The Star-Spangled Banner diventa l’inno di una intera generazione, l’immagine di questo nero sognante, casacca bianca a frange e una fascia rossa in testa, che suona la chitarra alla rovescia assurge a simbolo di un movimento che segnerà profondamente la cultura degli anni ’60.
Il potere evocativo dei simboli a volte resiste allo scorrere del tempo e così è stato in questo caso poiché, ben 42 anni dopo l’iconico concerto di Woodstock, nel 2011 la francese Jovoy lancia Psychédélique, ad opera del naso Jacques Flori, una fragranza che dichiara apertamente già nel nome la sua ispirazione a Hendrix e più in generale alla cultura hippie del flower power.
Va da sé che si tratta di un jus costruito attorno al patchouli, emblema della generazione Woodstock che ne usava l’olio puro per profumare i capelli, qui scelto in una varietà unica distillata in Vietnam; tuttavia essendo un omaggio e non una nostalgica rielaborazione il risultato è una fragranza raffinata come evidenziato già dalla presentazione, nel consueto stile Jovoy, con il flacone dal profilo sinuoso sormontato da un pesantissimo tappo in metallo brunito che racchiude un jus dello stesso colore di un rhum di pregio, un packaging che suggerisce qualcosa di elegante e sofisticato e non rimanda certo a giovanotti seminudi e infangati.
La piramide olfattiva del jus dichiara in testa delle generiche note esperidate che in verità si sentono appena appena, perché si mostra subito in tutta la sua forza il patchouli scuro e fumoso, elencato nelle note di cuore ma troppo esplosivo e opulento per restarsene lì buonino ad aspettare il suo turno, cosicché la partenza è subito molto carica, come la chitarra elettrica distorta e satura del magnifico ispiratore della fragranza.
Ci vuole invece un po’ più di tempo prima che emergano delle note floreali di rosa e geranio, dichiarate anch’esse nel cuore, troppo gentili per riuscire ad attenuare il patchouli ma capaci di delineare dei contorni di maggiore tridimensionalità e eleganza attorno a quella sua componente iniziale molto terrosa (richiamo involontario ai fiumi di fango in cui sguazzavano i felici spettatori del concerto). Piuttosto sono delle note ambrate e di cisto che cominciano a mettere in riga il patchouli abbassandone i toni subito prima che diventino fracasso. L’ambra in particolar modo sposta la caratterizzazione verso un cotè caldo e cremoso e quando finalmente si fa strada dal fondo del jus una nota bella piena di vaniglia asciutta, per nulla stucchevole ma piuttosto presente, il patchouli finalmente rende l’anima al suo creatore e Psychédélique si spegne lentamente su una morbida e avvolgente coda, sostenuta da un musk con accenni animalici per un finale voluttuoso e avvolgente.
Nel complesso una performance stellare, da fare invidia alla storica kermesse hippie, con un sillage ancora ben avvertibile dopo oltre 9 ore di magistrale evoluzione, senza sbavature e mai sopra le righe, come una meravigliosa cavalcata rock che parte fragorosa sulle note di un riff elettrico e termina sussurrando lieve le parole di una ballad, sospesa su piccole ali danzanti di farfalla.
Well she’s walking through the clouds
With a circus mind that’s running wild
Butterflies and zebras
And moonbeams and fairy tales
That’s all she ever thinks about
Riding with the wind.
When I’m sad, she comes to me
With a thousand smiles, she gives to me free
It’s alright she says it’s alright
Take anything you want from me, anything
Anything.
Fly on little wing,
Yeah yeah, yeah, little wing
Little Wing (1967)
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Stellare!!!
Buono, ma l’oscar per il miglior patchouli del secolo lo vince Villoresi, puro alcool da sballo. Se incontri un posto di blocco con quello addosso il test del palloncino è assicurato…
Beato te, la mia pelle si “beve” tutto, a me resiste massimo mezza giornata ma ho lo stesso triste effetto anche con i Montale (SIGH SIGH…)
Dopo l’incipit vivace diventa massiccio e ombroso. Ottima proiezione, buon fissaggio, l’unica pecca è nel frame centrale che trovo scontato con l’innesto della rosa. Osare un pelino di più sarebbe stata cosa buona e giusta.