On the road. Jack Kerouac e la Beat Generation “narrati” dal naso di Timothy Han
“Si può sempre andare oltre, oltre non si finisce mai”
Jack Kerouac, On the road
Di tutti i libri scelti da Timothy Han per la sua collana olfattivo-letteraria On the road è sicuramente il più famoso e fors’anche il più frainteso. L‘omonimo profumo che il Naso canadese costruisce attorno al celeberrimo romanzo di Jack Kerouac – vera e propria bibbia della Beat Generation – si colloca a metà strada fra l’erpicato ermetismo concettuale di The decay of the angel del 2017 e l’oscura discesa ad inferos di Heart of darkness del 2019.
Fragranza del 2015 impreziosita dall’apporto fotografico di Cedric Christie, On the road è un viaggio appoggiato alle narici che impiega le consuete note olfattive estremamente realistiche e vivide “alla Han”; da semplice accessorio, ecco che anche stavolta Han è in grado di trasformare la sua creazione in una mappa su pelle che delinea il vagabondare – esistenziale, prima ancora che fisico – di Sal Paradise e Dean Moriarty (l’alter ego di Kerouac e l’amico Neil Cassidy) attraverso l’America post bellica delle grandi speranze… disattese.

La storia di On the road (il libro) si svolge in un periodo compreso fra il 1947 e il 1950 ed è raccontata in prima persona dal protagonista Sal Paradise, aspirante scrittore. Con l’utilizzo di quella che Kerouac medesimo definì una “prosa spontanea”, vengono descritti gli innumerevoli viaggi e le traboccanti scorribande da est a ovest, da nord a sud, più volte, di Sal, dell’amico-mentore Dean Moriarty e degli altri componenti del movimento beat inseriti nella narrazione sempre sotto pseudonimo; in quel nutrito gruppo di “pazzi di vita, pazzi per parlare, pazzi per essere salvati, vogliosi di ogni cosa allo stesso tempo, quelli che mai sbadigliano o dicono un luogo comune” sono da annoverare Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, William Burroughs e Gregory Corso.
Kerouac appuntò le proprie impressioni su una serie di blocchi di carte e fogli sparsi da cui, nell’aprile del 1951, estrae il romanzo, scritto su un unico rotolo di carta di 36 metri; questo procedimento serviva a non perdere il ritmo della scrittura che per l’autore doveva avere un battito sincopato ed esplosivo pari al bepop, genere jazz allora seguito dai “beatnick” (specialmente nella figura del sassofonista Charlie Parker).
Il tema del vagabondare senza una vera e propria meta delinea un malessere neanche troppo sotterraneo che minava gli animi dei giovani americani:conclusasi la Seconda Guerra Mondiale non si sentivano integrati con i valori borghesi e con la società del benessere economico dei padri. Il viaggio diviene emblema di una ricerca sfrenata di libertà, del rifiuto delle convenzioni sociali ed espressione di una passione per la vita smodata. Gli autori della Beat Generation utilizzavano qualsiasi mezzo oltre all’arte per andare “oltre”, fra cui droghe, sostanze psicotrope, sesso promiscuo e, nel caso specifico di Kerouac, l’abuso di alcol. Eccesso che lo condurrà alla morte nel 1969. E quindi il viaggio diventa “il trip” e da qui nasceranno la marea di stereotipi e banali generalizzazioni che faranno degli autori beat e degli hippie un unico fascio, corrompendo lo spirito di genuina ribellione del movimento originario.
In On the road – for your inner rebel – “per il ribelle che c’è in te”, così recita il sottotitolo del profumo – Timothy Han stavolta si sbilancia olfattivamente e palesa la sua simpatia per la Beat Generation nell’aplomb molto diretto e coinvolgente della sua creazione, ricreando quasi una jam session olfattiva. E d’altronde non potrebbe essere diversamente: il giovane naso difende strenuamente la sua indipendenza e ne ha fatto un manifesto (“Non creiamo fragranze per le masse ma per i liberi pensatori” è il disclaimer della collezione Timothy Han Edition).
On the road (il profumo) non solo descrive gli scenari incontrati da Sal e Dean ma commuove e smuove, utilizzando un registro di petto confidenziale, da combriccola, ma ipnotico e morbido; insomma, un motteggiare mistico in contrasto con le altre sue produzioni più “severe” e calibrate.
Curiosamente il termine beat fu coniato da Kerouac in senso religioso non politico contestatario; “beat”, come diminuitivo di “beatific”, cioè beato: “Fu da cattolico (…) che un pomeriggio andai nella chiesa della mia infanzia (…) a un tratto, con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro silenzio della chiesa (…) ebbi la visione di cosa avevo voluto dire veramente con la parola ‘beat’, la visione che la parola ‘beat’ significava beato”. Han parte da questa inflessione sacra e apre un percorso bivalente nel nostro naso: esplorazione delle tracce di Sal e Dean negli scenari americani, ma anche un trip nella confusa interiorità di Kerouac come uomo. “A me piacciono troppe cose e io mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all’altra finché non precipito. Questa è la notte e quel che ti combina. Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia stessa confusione”.
Il benzoino con i suoi vagheggi fumosi scalda il motore della fragranza; come un chopper tirato a lucido ci invita sulla sua sella consumata e scricchiolante mentre la corteccia di betulla ben ricrea l’acre calura estiva dell’asfalto di New York City, prima tappa del viaggio. Si parte: timore zero, sogni troppi. Lo spruzzo iniziale è roboante; le ruote iniziano a girare e in men che non si dica, fagocitano la polvere e la rigettano sulla terra e sulle nostre bocche, con il sapore amaro e lievemente salato del patchouli. L’incrinatura saettante di un galbano impertinente ci introduce la figura controversa di Dean Moriarty, l’anti-eroe e deus ex machina della vicenda. Egli incarna il vitalismo individualistico spinto all’estremo. Il suo talento è uno sterile magnetismo che non trova espressione in nulla se non nell’arte della vita in sé per sé, in contrasto evidente con l’implosione autodistruttiva ma artistica di Sal.
Il fascino dello scavezzacollo Dean si poetizza in un soffio d’amyris, dolciastro e ammiccante ma evanescente succedaneo del sandalo, come Dean lo è di un vero artista. Ma a noi non importa: ormai Han ci ha messo in sella; da New York City maciniamo chilometri gioiendo come pazzi, la mente aperta dal parterre composito di incensi, il cuore leggero. Con i capelli mossi dalla sferzante brezza agrumata di solari bergamotti e limoni – che pennellano con svisate cromatiche i vasti campi aperti del Centro America- stringiamo le braccia attorno a quei due farabutti e caracolliamo a rotta di collo sulle strade americane.
Man mano ci avviciniamo alla West Coast, la fragranza s’attutisce e sembra caricarsi del greve bagaglio delle prime esperienze di vagabondaggio. Han risuona le sue note più profonde e caratterizzanti; catapultati nel cuore delle notti scendiamo dalle moto e dopo una rinfrescata sommaria di lavanda, mettiamo piede nei più nascosti jazz club. Il muschio di quercia ricrea l’umidità della notte in cui il fumo di mille sigarette s’attacca al sudore di pelli sudate. Lo stridere del tenorile sax di una jam vena di verve il legnoso sostegno del guaiaco che, insieme al labdano quasi da un effetto inebriante, come un bicchierino – uno dei tanti, nel caso di Jack – di whiskey.
Il cuore di On the road è tondo, un caldo braciere di erbe proibite, ingentilito però dalla vaniglia. La nota “femmina” per antonomasia è come una cascata di biondi riccioli dorati, dolce come il sorriso malizioso di ragazze in pantaloncini sedute con le gambe accavallate. I visi alterati di Sal e Dean sono in visibilio. L’amore è facile, sgranato e mirabolante grazie all’hashish. Ma mentre Dean lascia che la mente si dilati, Sal implode in un rigurgito di strazio. E infatti, dallo sprofondare nell’ombra legnosa e più asciutta – lato meno facile di tutta la fragranza – emerge il carattere paranoico del protagonista: per lui l’esistenza rimane banale e ripetitiva, la sconfitta di fronte alla società insopprimibile e quel che più lo affossa è l’impossibile elusione del senso di morte.
Dopo un breve vagito di cedro che si inerpica come LSD nel cervello, Han spegne i motori “spargendo il suo fioco scintillio sulla prateria” come la stella della sera. Predilige un drydown di sofferente ritorno alla realtà attutito dal supporto confortevole della fava tonka. Stanchi, seppur ancora non sazi, approfittando della imponente persistenza di On the road sui polsi, ci accoccoliamo nel sacco a pelo, a contare le stelle. Una costellazione di domande ci sparpaglia il cervello e avvolge le spalle di oscurità. Perché nemmeno lo spirito di ribellione può dirci che sarà di noi
“(…) e nessuno sa quel che succederà di nessun altro se non il desolato stillicidio del diventar vecchi (…)“
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