Megamare. Orto Parisi distilla il profumo dell’oceano
Dall’acqua veniamo e all’acqua torneremo.
C’è una strana luce e il suo riverbero accecante si espande sull’acqua irrequieta. Il sole, bianco e feroce, non risparmia alcuno dei suoi raggi, costringendoci ad abbassare gli occhi. Aggrappati al timone della lancia, ipnotizzati dal rollío, molliamo gli ormeggi dello spirito e ci abbandoniamo al calore. Ed è allora che, insperato, un guizzo fresco, un fiotto d’onda sbruffone, ci schiaffeggia il viso. L’Oceano ci sveglia, ci richiama all’attenzione. Burbero e materno, ancora conserva quella summa di elementi delle sue ancestrali origini.
Non dobbiamo dimenticare. Tutto ebbe inizio dal brodo primordiale 3,5 bilioni di anni fa. Se non fosse stato per la “mer” oggi noi non esisteremmo. Non dovremmo dimenticarlo. Eppure i dati statistici sembrano confermare un periglioso oblio nella memoria sfocata di noi omuncoli.

Gli Oceani soffrono; l’inquinamento, i cambiamenti climatici e la pesca incontrollata danno filo da torcere al Polmone Azzurro. Perché di vero e proprio polmone si tratta: i mari producono metà del nostro ossigeno e assorbono grandissime quantità di anidride carbonica. Invece lo dimentichiamo. Le immagini di isole di plastica galleggianti sono quotidianamente sotto i nostri occhi; testuggini impigliate nelle reti o pesci arrancanti in superficie, mestamente annientati dall’ennesimo sversamento chimico, suscitano commenti colmi di rammarico sui social media, ma sono scatti fotografici privi di un appiglio alla nostra morale.
Ingrati figli scellerati, quindi, non maltrattiamo solo la Terra, ma anche la sua coperta turchina, che la abbraccia con il suo 70% di manto ondoso e fondali solitari. Noi umani siamo così: più una cosa non la conosciamo, più la temiamo e l’avversiamo. E degli Oceani sappiamo davvero poco: circa il 95% della loro superficie, in speciale modo le depressioni oceaniche, rimangono inesplorate. L’abisso ci incute un timore reverenziale che spesso si tramuta in volontà di sfida o di invasione. Nel 2021 ancora ci riveliamo “oi barbaroi”, pirati privi di etica, distruttori imperterriti. Ma i nostri figli non dimenticheranno.
La nuova generazione farà tesoro dello squallore che gli stiamo consegnando; gli studi oceanografici si moltiplicano e ondate di gagliardi giovani dal genuino spirito ecologista, ancorati saldamente ai loro ideali, investono energie fisiche e mentali per la salvaguardia e la tutela della magnificenza idrica planetaria.
In un mondo che sta naufragando e non se ne accorge, chi il mare lo studia e chi di mare ci vive non si arena sotto false scuse: si prende cura di balene, pescicane, tartarughe, delfini, coralli, dei milioni di pesci e del plancton, vitale nutrimento della biodiversità marina. Attorno a loro c’è un profumo, speciale, unico. Una volta annusato non si dimentica. Un aroma inconfondibile che sa di equipaggi e sudore, gomene e lenze, insenature rocciose, densa salsedine e rive imporporate dal crepuscolo; un umido di conchiglia proveniente chissà da dove, che riecheggia di ultrasuoni e fischi, di sciabordii, di pinne caudali che sbattono, denti che si chiudono, sargassi che fluttuano fantomatici. Indimenticabile.

È l’odore del mare… anzi, del Megamare: l’Oceano di Orto Parisi, moltitudine e unità di acque, madre e padre, superficie e abisso. Dopo aver esplorato e dissacrato qualsivoglia genere olfattivo nuotando controcorrente con la brama instancabile della genialità, al Capitano Gualtieri non rimaneva che la prova più ardua: cimentarsi con i cosiddetti “marini”. La lisca mancante, per così dire, appuntita e tagliente, quella che si conficca dritta in gola se non si sta attenti.
Gli anni trascorsi ad Amsterdam pare abbiano giovato a maturare la giusta affinità con il fluttuare blu carico di mistero che circonda le terre emerse. E sicuramente, un personaggio sensibile come Gualtieri alle materie prime, al loro pulsante infrangersi fra le caverne nasali, non poteva esimersi dal dimostrare il proprio omaggio onesto e accorato all’Oceano, inteso come entità fuori dal mito, ben lungi dalle facili edulcorate raffigurazioni circolanti. Perché ammettiamolo: dalla scoperta delle molecole iodate in poi è semplice riprodurre l’atmosfera salmastra, ma i buchi nell’acqua non si contano ed è facile lasciarsi accalappiare dall’amo della banalità.
Però alla guida del Nautilus di Orto Parisi c’è Alessandro Gualtieri, un Principe Dakkar degno di Jules Verne. Lo si può immaginare mentre prepara la “missione” Megamare: deve essersi calato senza muta nell’indaco indecifrabile delle Marianne olfattive; al punto di non ritorno del respiro, ha ingollato sale e plancton e la luce fosforescente delle murene gli ha propinato un bell’elettroshock. Forse il canto flautato e infido delle sirene lo ha immobilizzato in un incubo sottomarino. Relitti sporgenti dagli anfratti del tempo gli hanno poi costruito attorno una imbarcazione fortuita mentre lo squalo martello gli forgiava una corazza. La risata del delfino lo ha infine risvegliato: e così, avvolto dal grembo cobalto e dotato non più di naso ma bensì di branchie, ha inspirato il vero odore della mer. E questo, per inciso, non sa di cocco, né di menta o tantomeno di abbronzanti e agrumi.
L’estro fluido di Gualtieri si distingue per l’abile surfare sulle scelte: in ogni sua performance c’è “tutto”; Gualtieri e l’aut aut non navigano mai vicini e chi se ne importa se per qualcuno è “troppo”. Per cui, anche stavolta, la sua mano ci afferra e ci immerge fino alla gola, senza remore; dopo la discesa in acque profonde, ci consegna l’alfa e l’(o)mega del mare senza inutili fronzoli. Prendere o lasciare.
Non amano l’acqua, e la temono, e non si capisce perché la frequentino.
(da “Una balena vede gli uomini” – Antonio Tabucchi)
Il Megamare non è un oceano ameno. A un tiro di scoppio dal Sempre e mezzo miglio dal Mai, pare un Poseidone canuto e pensieroso, immanente più al diluvio biblico che a una patinata rivista di viaggi. I Greci, grandi navigatori, adoperavano un termine diverso per ogni aspetto del “mare”; nella prima immersione della fragranza di Orto Parisi sarebbe adatto usare “als” (letteralmente “la salata”): cioè il mare inteso come “materia”, acqua e sale, il brodo primordiale. Il salmastro si erge a prua nelle vesti rudi e spinose del calone. Un’esca succulenta per nasini argentei e ingenui. Con una virata bizzosa a babordo, da “als” la sfaccettatura lessicale e olfattiva si infila nel “pelagos“: il mare aperto, quello che atterrisce e che infuria.

Elegante e rarefatto, sotto la pressione spavalda delle note ozonate si intensifica un alone nebuloso, sospeso, allo stesso tempo aria e acqua, visione e paura: è fumo di incenso che mistifica l’entrata tentacolare dell’alga, vegetale e viscosa, penetrante, quasi stridente nel suo brutale realismo. Reso speziato dal calore ostinato, l’accordo salato-incensato perde le screziature smeraldo e assume una tagliente inflessione metallica. Gli occhi iniziano a bruciare, ma abbiamo già raggiunto e superato quello che era l’ultimo scoglio: finito il brivido, ci aspetta un tranquillo veleggiare nel “thalassa”, il tranquillo mare costiero.
Capitano compassato, Gualtieri domina gli alisei e crea una bonaccia intermedia costruita su accecanti riflessi a fior d’onda. Rubando il mestiere alle sirene, ci inganna con note dolciastre di liquirizia (ma sarà vero o l’oceano ci confonde?) e ci culla con il morbido beccheggio della quercia marina. Procediamo, ipnotizzati da gorgoglii muschiato-legnosi e spumeggiare aromatici, echi lontani della macchia mediterranea. E non ci accorgiamo di aver abbandonato la costa.
Il mare ora non è più né als, né pelagos, né thalassa. Di soprassalto, eccolo, il Mega-mare, l’Oceano: unico, immenso, fresco, tutt’intorno a noi. Il sale scende e si concentra nelle depressioni dei gomiti; le alghe ritornano nei fondali del naso e non ci disturbano più. La meraviglia ci colma la vista: sono balene di laggiù? L’ambra grigia emette i suoi ultrasuoni raffinatissimi! È sempre stata lì, ma non eravamo in grado di percepirla, distratti dalle ombre. Minerale e preziosa, satura la pelle, la carezza sfiatando placida. La potenza di questa vastità è da togliere il fiato e una commozione strana ci forma un groppo alla gola: come si può deturpare tanta bellezza? Una sola lacrima scorre sulla guancia, rotonda, salata, dolce e metallica: il microcosmo che scaturisce dal macrocosmo…
Dall’acqua veniamo e all’acqua torneremo.
Quello di Orto Parisi è un viaggio ecologista, per cuori impavidi, che non temono di trascinarsi addosso e tutt’intorno l’odore del mare in ogni suo tono; celebre ormai per l’inscalfibile durata che può essere una minaccia di burrasca o una irresistibile bonaccia, ingloba e supera qualsiasi profumo si sia cimentato con il genere. Una fragranza che fluttua libera, priva di freni, poderosa come un marinaio e subdolamente ittiomorfa, incutendo in chi la indossa un rispetto profondo per ciò che vuole simboleggiare e un senso di amore…
L’Oceano è da Meg-amare Non dimenticatelo.
(Photo Credit: AdobeStock)
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