Lo spirito imperfetto di C21 (BePolar) incrocia lo sguardo stra-ordinario di Diane Arbus
Chi è appassionato di fotografia non sarà nuovo al nome di Diane Arbus: fotografa statunitense di origine russe, diventò celebre per i suoi provocatori ritratti di “freaks” (nani, giganti, gemelle siamesi…), scandalizzando l’America benpensante a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60.
Nel 2006 il regista Steven Shainberg (autore del pluripremiato Secretary), cresciuto tra i ritratti della Arbus che decoravano le pareti di casa, porta sullo schermo una biografia “immaginaria” della fotografa newyorkese (interpretata nel film da un’algida Nicole Kidman). La pellicola si intitola Fur – Un ritratto immaginario di Diane Arbus, dove “fur” è il chiaro riferimento alla famiglia di facoltosi pellicciai ebrei della Arbus, ma non solo. Nella narrazione Shainberg decide infatti di focalizzarsi sul rapporto erotico-morboso che Diane – madre insofferente e moglie frustrata – intesserà con Lionel Sweeney (l’irriconoscibile Robert Downey Jr.), eccentrico individuo affetto da ipertricosi, malattia che porta a un aumento abnorme dei peli corporei (in sostanza, una pelliccia), costringendo Lionel a vivere nascondendosi dietro a una maschera.

Film bistrattato dalla critica, sotto le mentite spoglie di una voyeuristica versione post moderna de La Bella e la Bestia, Fur ha però il pregio di offrire un ventaglio smerigliato di spunti di riflessione. In primis, la mai estinta dicotomia fra l’apparire e l’essere scollinando sull’impervio terreno di sfida tra realtà e sogno. E poi l’ottovolante etico per determinare ciò che è “normale” e ciò che non lo è; non dimentichiamo lo sprone a portare alla luce i propri talenti individuali che spesso rimangono soffocati dai ruoli imposti dalla società; infine, pure una tagliente dissertazione sull’attrazione per il “diverso”, che immancabilmente determina in noi la vergogna della nostra stessa vergogna. Un substrato ricco – forse troppo – per una biografia romanzata che tende a disperdere lo spessore dei temi negli occhioni blu e nelle faccette della Kidman o nella voce seducente ma affettata di Robert Downey Jr.
Tutt’altra evoluzione hanno i medesimi argomenti spinosi nella produzione di Angelo Orazio Pregoni, artista sinestetico, disturbante e controverso freak nel variopinto baraccone della profumeria italiana. Pregoni ha dedicato un’intera linea alla celebrazione dell’individuo con tutte le peculiarità che lo rendono unico ed irripetibile, cioè BePolar e le sue cinque fragranze “farmaco”. Da notarsi che nella campagna di presentazione di BePolar, il naso genovese inserisce degli scatti curiosamente in linea con le foto che consacrarono la Arbus, in un ulteriore rimando prospettico dell’ormai storico film di Tod Browning del 1932, per l’appunto intitolato Freaks.
La capsule BePolar già nel nome è epifania di una concezione artistica che fa del defectus la chiave per sbugiardare una società che teme ed esecra il lupus bramandone sottilmente… la pelliccia.
Diane Arbus e Angelo Orazio Pregoni dimostrano entrambi una perversa attrazione per il menomato, l’imperfetto fisico o morale che sia; quasi un magnetico caracollare verso quel senso di “orrendo” in accezione Romantica, per certi versi riconducibile a illustri predecessori quali Lord Byron, Mary Shelley, Horace Walpole. Attraverso il naso del profumiere e dentro gli occhi-camera oscura della fotografa, l’essere imperfetto diventa un boomerang che, impietoso, ci riconsegna il raccapriccio della nostra stessa terribile disformità. Seppur distanti epoche e con diversi mezzi espressivi, i due artisti paiono giungere alla stessa soluzione: senza girarci intorno, ci insegnano che è l’imperfezione, inesorabilmente, a renderci unici ed irripetibili.
Più ambisci alla perfezione più ti allontani. Parlo con te, con te che leggi, ora.
“Dunque è reale solo ciò che percepiamo? Ma la perfezione che immagino nei miei pensieri è reale, anche se per te è inconoscibile.[…] LA PERFEZIONE ESISTE ED È PENSABILE, MA NON CONOSCIBILE.”
(dalla presentazione di C21 – BePolar).

Dei cinque profumi BePolar, C21 più di ogni altro sembra cucito addosso alla Arbus, se non altro di quella che solletica l’immaginazione del regista Shainberg. All’inizio di Fur, il cineasta ci immerge nella vita dorata ma miserrima di una donna colta e sensibile, schiacciata dagli stessi privilegi sociali di cui gode. Moglie innamorata e tenera di Allan, fotografo di moda, trascorre le giornate fra le faccende domestiche e le figlie oppure assistendo il marito sui set, preparando luci e pettinando modelle. Una donna all’apparenza impeccabile e innocua, “pulita”: insomma “perfetta”, ma divorata da un fermento di pensieri peccaminosi e torbidi. Un dissacrante segreto – quello attorno alla propria natura di donna – che viene tenuto nel subconscio dal suo Io malato.
– Qual è il tuo segreto?
– Mi sono sbottonata il vestito sulla veranda stasera.
– Ah si?
– Allan: non voglio essere fatta così.
(Diane Arbus, quella del film)
C21 ad un primo scatto risulta squillante, allineato, quasi facile nel suo rassicurante color paglierino. Un’apparenza ordinaria che cela il tumultuoso ribollire di una passionalità indomita e prismatica. Le avvisaglie di questa non-conformità a ciò che ci si aspetta sono ravvisabili già nell’inusuale turgore aromatico del rosmarino. La vivace erba glauca, aggrappata ad un saldo quanto muto parterre di fiori bianchi, potrebbe rimanere lì, scodinzolando ligia senza esplodere mai nella sua possenza. Pregoni invece prepara il set, dopodiché slaccia il vestito della fragranza: il lupus in fabula – Lionel Sweeney – è impersonificato da un conturbante e barbuto oud, impellicciato e impomatato, pronto a cogliere l’occasione.
– Vuoi sedurmi, Diane?
La sua è una presenza che catalizza volenti o nolenti l’attenzione, ingombrante al limite del fastidio. Il vaso di Pandora dei segreti scricchiola: qualcosa in noi si risveglia dopo questo incontro. Il punto di non ritorno. O punto di partenza. O inizio della fine. “Ciò che devo essere” e “ciò che io so che sono” che scazzottano convulsamente. Illuminante è la scena di Fur in cui Diane decide di recarsi da Lionel per fargli un ritratto fotografico: la scelta del vestito celerino così diverso dagli smorti ma seri abiti che indossa abitualmente designa l’interruzione del nebuloso quotidiano a favore dell’emersione di una propria vis creativa, magari ancora incerta ma fortemente propulsiva, persino sessuale.
Certamente erotico è il punto focale di C21: sbloccata l’impasse, l’oud getta la sua lussuria bizzarra sugli altri componenti della piramide. Li libera, accentua anziché accomodare i loro lati nascosti. A bocca aperta, come Diane quando conoscerà gli strani amici di Lionel, ci accorgiamo che il classico gelsomino in realtà gradisce far mostra di sé nudo, danzando abbracciato alla fava tonka, secca entreneuse dai capezzoli legnosi e appuntiti. Il sacro olibano non è affatto religioso ma eccelle nell’indurre in tentazione, mascherando il suo fumo in un declivio liquoroso ipnotico.
L’assoluta padronanza concettuale di Pregoni – qui in chiara veste di patron del baraccone – si concretizza nel cuore di C21: il gotico, elegante voyeurismo dell’envol viene flashato da un eccesso pop-ostrobico di latte e caffè. La piatta e repressa borghesia si scioglie in ludibrio sugli spalti. Il guizzo balsamico dell’individualità cola in crema densa a medicare gli spasmi di un corpo più somigliante a un gargoyle che a una statua greca.
Con l’estro sarcastico di un anfitrione perverso, Pregoni scatena i suoi mostri di ingredienti che annusati alla luce di caratteristiche impensabili ci mostrano una realtà rivoltata come una… pelliccia, dilatata e non più avversa ma pregna di onirico. L’intensa spalmata di aneto aggiunge calibratura verde allungando come l’ombra di un gigante il sillage compromettente.
La proiezione funge da obiettivo, convogliando lo sguardo inebetito degli altri, dei “ normali”, sul sensore di una fotocamera olfattiva: e siamo pronti. Il ritratto più somigliante a noi stessi che potrebbe mai essere realizzato si sprigiona dai polsi… o da tutte le nostre più strane escrescenze. C21 gode di una performance possente come una donna barbuta, senza renderci né più belli né più brutti, tantomeno migliori o peggiori. Ci consegna a noi stessi.
“Una fotografia è un segreto attorno a un segreto:
più cose ti dice meno ne sai.“
(Diane Arbus, quella vera)
Siamo reali? Difficile dirlo. Siamo perfetti? Quando meno lo crediamo. L’immagine che offriamo al mondo non corrisponde quasi mai al “mostro” che ci portiamo dentro. La folta pelliccia di regole, convenzioni, abitudini ci (tra)veste dandoci illusione di individualità, ma è solo una falsa protezione malata. Lasciandoci radere con la giusta dovizia da chi non abbia timore di osare possiamo liberare il nostro sensibilissimo freak interiore e volare nel circo della vita.
Immaginatevi Pregoni con il rasoio che sorride sardonico e che vi chiede: ”C 6 o C fai?“
Beh, la risposta è facile: “Io? C 21”
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