Il cuore di Hystera palpita dentro L’Albero della Vita. Gabriella Chieffo incontra Terrence Malick
“Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra?…Mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?” (Giobbe 38; 4,7)
Ci sono simboli che pervadono la nostra vita, senza accorgercene, ne veniamo intrisi. Come un pezzo di stoffa sul quale è stato versato del profumo, portiamo i segni immateriali di archetipi universali e tuttavia ci dibattiamo nelle piccolezze dei giorni, dimenticando la nostra immortalità.
L’albero della vita è un simbolo dalle origini antichissime che riconduce al potere germinativo della vita, al legame profondo tra terra e cielo, tra materia e spirito.
Possiamo dire che l’albero della vita custodisca la chiave dell’essere? Si.
Possiamo dire che troppo spesso ci dimentichiamo di questo simbolo? Si.
Possiamo dire che Terrence Malick ci ricorda tutto questo nella pellicola che ha diretto nel 2011, interpretata da Brad Pitt, Sean Penn e Jessica Chastain, The Tree of Life? Si.
L’anno è indifferente, intorno al 1950. Partiamo da qui per continui salti temporali che scardinano la nostra abitudine alla linearità cronologica, per farci entrare in ciò che, per Malick, è importante: l’interiorità dei personaggi, i loro pensieri, le loro debolezze, il loro amore e il rapporto con il creato e il creatore.
The Tree of Life non è un film da divano e pop corn, richiede attenzione e predisposizione. Malick ci porta in un viaggio dentro l’inconscio e dentro l’anima divina, con scene di rara poesia e spazi di lunghi silenzi umani, dove la voce della natura è potente, feroce, meravigliosa.
Viaggiamo in apnea nel susseguirsi dei giorni, cercando di fare del nostro meglio, in equilibrio sul filo teso sopra le nostre paure e debolezze. Così è per i coniugi O’Brien e i loro tre figli, divisi nell’amore tra un padre autoritario ed una madre amorevole. Il dolore per la perdita di un figlio e di un fratello metteranno la famiglia di fronte a quegli interrogativi che spesso non vogliamo ascoltare, ma che urlano dentro di noi. E il contrasto tra la precarietà della nostra esistenza e l’incapacità di accettarla si mostrano, lacerando ancora la ferita del dolore.
Siamo incapaci di accettare che tutto scorra verso un senso e una direzione che non siamo in grado di prevedere, né di deviare. Ogni cosa è stabilita, nel ritmo melodioso dell’universo e noi ne facciamo parte. Non siamo individui, ma ingranaggi meravigliosi di ancor più meravigliosa opera.
Ecco lo strappo, per noi. Dimenticare questo: che siamo fatti della stessa materia dell’universo, che ad esso siamo legati e che di esso seguiamo il divenire. La perdita, la morte sono in realtà passaggi ad altre forme, così come la nascita. Il dolore che proviamo è la nostra debolezza che si attacca alla continuità, alle cose, alle persone, come se la loro presenza fosse determinata dalla loro tangibilità.
Nelle scene meravigliose dove gli uomini non compaiono, Malick ci conduce al centro di noi, dove risiede l’universo e l’origine. E’ lì che dobbiamo tornare quando le domande non trovano risposta. Il silenzio di Dio è la risposta. Un universo oscuro, buio oltre ogni immaginazione, popolato di rumori potenti che sembrano ruggiti, nella forza propulsiva della creazione, terra liquefatta, vapori, intensità di luce e colori si mischiano all’ombra e alla distruzione: ecco la vita, dove dimora la nascita e la morte in un susseguirsi ovvio e continuo. Chi siamo noi per desiderare che questo si fermi? E poi l’universo, l’esplosione delle stelle, le nebulose, squarci di un tempo preistorico, frenesia della creazione, sinapsi e connessioni che stillano esistenza e tutto è percepito come un unico infinito essere. Se solo ricordassimo che tutto questo è dentro di noi, che è la materia della quale siamo costituiti! Come appare più piccolo il dolore umano.
In quelle scene a ritroso della creazione ritroviamo quell’utero originario da cui tutto scaturisce e al quale tutto ritorna. E questo ci porta, inevitabilmente, a quel piccolo flacone squadrato che potrebbe essere un’estensione dell’albero della vita. Uno scrigno che emana sentori aspri e dolci ancor prima di sollevarne il tappo, che si veste della luce del vetro come fosse aria e della solidità della pietra a rappresentare la terra e le radici.
Gabriella Chieffo riporta in Hystera, utero appunto, le scene della creazione che ci affascinano in Malick e le rende poesia olfattiva difficile e al contempo meravigliosa.
E’ un richiamo alle origini della vita dove i contrasti, la vita e la morte, il dolore e la meraviglia si susseguono nella logica della natura. Le note aspre della salvia sclarea in apertura soffocano il bergamotto che è pallido e lontano; non è un’apertura frizzante bensì secca, piena, quasi alcolica. Le grandi foglie della salvia sclarea si esprimono completamente come una nebulosa che s’allarga nell’oscurità profonda del primo afflato vitale dell’universo. E’ aspro e lentamente scivola in una nota quasi dolciastra, a tratti medicinale dichiarando così, una composizione che deve essere accolta con pazienza, poiché non potrà essere colpo di fulmine, forse, ma qualcosa ci attira.
Come quando assistiamo alla morte e alla vita che si susseguono, poiché una permette l’altra e viceversa e sappiamo che non può essere che così. Hystera, come scrigno della vita, abbandona la ruvidità delle note di testa per scivolare in quelle talcate e molto polverose dell’iris: è la madre, nell’urlo dell’amore che genera la vita ed è ancora il dolore necessario passaggio per la personificazione dell’amore. I contrasti di Malick sono tutti in questo liquido dorato, tanto innocente, quanto ammaliante.
Una volta sentito tornerete a sentirlo perché qualcosa vi attrae e contemporaneamente vi respinge. E’ così e non volete farci nulla. L’evoluzione della piramide è lenta poiché ogni creazione necessita del suo giusto tempo. Ancora persistono lontane tracce medicinali, echi mesmerizzati nella polverosità dell’iris che qui è accogliente, ma non ancora soave, anzi è quasi inquietante, come può esserlo alcuni ricordi della madre dentro di noi.
“Padre. Madre. Voi due siete in lotta dentro di me. E lo sarete sempre.” Siamo ancora nell’oscurità in un fermento che ribolle, gorgoglia, sussurra e sbuffa. Solo dopo molto tempo l’eco medicinale si fa ricordo e dal magma cominciano a salire piccoli fumi più dolci, quasi rasserenanti. Avvertiamo la vaniglia che smorza il lato inquietante dell’iris per portarci ad un respiro soave di delicatezza e amore. E’ il momento dell’abbraccio, della scelta della grazia che sconfigge, piegandosi, ogni bruttura. La forza della delicatezza, della maternità come atto d’amore, come dono.
Vaniglia e iris si fondono diventando un unicum olfattivo che pacifica ogni male, un lenimento atteso dall’anima e goduto per lunghi momenti. Poi l’universo ci riporta alla sua forza prorompente, mutando l’abbraccio, facendolo adulto, consapevole, cosciente, vigile con note di patchouli incrostate di terra, con atti e decisioni, ma anche dubbi e paure.
E’ venuto il tempo delle note oscure, nuovamente. Del labdano narcotizzante, solo pallidamente dolciastro, e del legno di cashmere che riporta all’oscurità e verso una nuova luce, con note ambrate, morbide come il velluto. Sono note che scivolano sulla pelle, rivelandosi in tutta la loro ambiguità.
Tutto questo è Hystera, come The Tree of Life: l’esistenza umana che è specchio dell’esistenza universale, che ne origina, vi muore e torna alla vita in un processo che non potrà mai avere fine. Gabriella Chieffo, con la sua eau de parfum, ci ricorda tutto questo: i contrasti laceranti e l’incommensurabile meraviglia. E non vogliamo farne a meno.
“…aiutatevi tra voi… amate tutti… ogni foglia… ogni raggio di luce… perdonate!”
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C’è qualcosa di molto.. intimo in questo profumo. È calore, profumo di casa come quando si cucinano i biscotti in forno e la casa ed i vestiti che indossiamo sembrano essere tutti intrisi di caldo aroma di biscotto. Non sa di biscotto questo profumo.. ma sa di mani calde di un bimbo sulle guance della mamma, sa di sottoveste di seta scaldata dalla pelle e profumata di talco, di iris polveroso, di ambra, di legni un po’ pungenti. È persistente.. rimane dopo una notte in cui ci si dorme insieme. La mattina le lenzuola emanano carezzevoli effluvi. Che fatica alzarsi dal letto… vien da rimanere lì a farsi coccolare. . Da questo magico profumo.