Cedre (Serge Lutens). Prospettiva olfattivo-letteraria fra Christopher Sheldrake e Arthur Rimbaud
“Ora svelerò tutti i misteri: misteri religiosi o naturali, morte, nascita, avvenire, passato, cosmogonia, nulla. Sono maestro di fantasmagorie. Ascoltate!“
Così scriveva il giovane Arthur Rimbaud nel famoso Una stagione all’inferno del 1873, inaugurando il Simbolismo. Poeta rutilante, prodigioso e rivoluzionario, Rimbaud rifiuta con disprezzo la tradizione rivendicando alla poesia un ruolo orfico, cioè rivelatore di connessioni sconosciute e sottili che andando in profondità nell’animo ne rivelino il nocciolo primigenio, intatto. Qui si incastona come un diamante il perno di tutta la produzione del primo periodo, quel gruppo di componimenti ormai eterni in cui più che mai il nostro dimostra il suo essere “je est un autre”, cioè l’essere “altro” nonché “altrove” rispetto a ciò che concerne la mera realtà corporale-mentale della contingenza.
“Un tempo, se ricordo bene, la mia vita era un festino in cui tutti i cuori si aprivano, in cui tutti i vini scorrevano.
Una sera, ho preso sulle ginocchia la Bellezza.
E l’ho trovata amara.
E l’ho ingiuriata. Mi sono armato contro la giustizia.
Sono fuggito. O streghe, o miseria, o odio, a voi è stato affidato il mio tesoro.”
Da “Una stagione all’inferno”
Il giovinetto, dopo aver vissuto in prima persona ogni esperienza, dopo essere stato una vorace canaglia di sensazioni, capisce di essersi epurato; da qui la decisione di farsi veggente, in un ragionato sovvertimento dei sensi pericoloso ma dovuto agli altri uomini. Pericoloso perché si rischia la perdizione ma di incommensurabile soddisfazione quando l’apertura all’Assoluto si avvera grazie a delle illuminazioni temporanee (per l’appunto, le Illuminations è altra sua opera miliare). Invero, la discesa alla realtà è poi sempre pregna di scivoloni, burrasche interiori, trascorsi ambivalenti e sofferenti nei rapporti interpersonali.
Esemplare di questi estremi- quello vitalistico e delirante e quello di convulsa riflessione è il rapporto tormentato con l’amico/amante Paul Verlaine. Quest’ultimo, più vecchio di dieci anni e già poeta affermato (da lui e con lui nasce il Decadentismo), conosce il giovinetto tramite la lettura delle prime produzioni e ne rimane talmente folgorato da invitarlo a Parigi; fra i due nascerà così una scandalosa liason omoerotica (Verlaine era sposato) costellata da abuso d’assenzio e droghe e dall’aggressività di Rimbaud.
E qui, in questo frangente turbolento della vita di Rimbaud si colloca la scia perfetta di Cedre.
Creato nel 2005 da Christopher Sheldrake – la ”mano destra di Dio”, ovvero Serge Lutens – va ad aggiungersi al gruppo di circa 40 fragranze che il profumiere britannico ha ideato per il Maestro. Tuttavia, Cedre si erge come opera quantomai atemporale, inusuale, fortemente pregna di significati: insomma, è il Je est un autre parfum di Sheldrake.
Un delirio olfattivo tout court; una laida fantasmagorica riflessione post-sbornia, dopo il furoreggiare, al di là delle carezze scandalose. Cedre è il profumo che emana Rimbaud quando come egli stesso scrive: “Finii col trovare sacro il disordine del mio spirito”. La struttura è disancorata dal reale; è una foschia dei sensi in cui gli ingredienti si fondono, confondono, annullano e perdono i contorni.
“La mattina alle quattro, l’estate,
Il sonno d’amore dura ancora.
Sotto i boschetti svapora
L’odore della sera festeggiata.
Laggiù, dentro il vasto cantiere
Sotto il sole delle Esperidi,
Si agitano già scamiciati
I Carpentieri.
Nel loro deserto muschioso, tranquilli,
Preparano i pannelli preziosi
Su cui la città
Dipingerà cieli falsi.”
Da “Una stagione all’inferno”
Anche Cedre ha un angolo illuminato brevemente di sole; l’inizio che fa socchiudere l’occhio come all’alba è un legno di cedro immaginifico, reso sciropposo da una colata vischiosissima d’ambra. Quindi cedro “falso” o, meglio ancora, sfalsato, come visto in un momento di allucinazione. Scalzato immediatamente dalla venatura balsamica di una tuberosa pesante, verbosa, che scava nel profondo. Riccamente rivestita di spezie come di aggettivi lo è la poesia rivoluzionaria di Rimbaud. In questa fase Cedre è trasbordante, come un… battello ebbro. Ma il cuore dischiude in cupa trasmutanza tutta la verità trascendente di un’esperienza che sta volgendo al termine in una amaro epilogo che sa di languore e rammarico.
“Ma, davvero, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti,
Ogni luna è atroce ed ogni sole amaro.
L’acre amore mi ha gonfiato di torpori inebrianti.”
Da “Il battello ebbro”
E l’accordo principe di tuberosa e muschio, intervallati da sporchi riccioli di cannella e innumerevoli chiodi di garofano, è proprio l’oggettivazione olfattiva quasi iconica di quei “torpori inebrianti” di un amore inacidito (evidente qui il richiamo al rapporto con Verlaine). Quasi Cedre assume un aspetto surreale: un vascello dorato ma sfasciato, che cola a picco dopo aver sondato acque profonde e aver condotto sublimi illuminazioni a uomini che, schiavi della tradizione, non le hanno sapute cogliere. Degno dunque di questo epilogo è il lato (o)scuro, al confine con l’odore (e ritorna il tema del Je est un autre: profumo borderline con il “puzzo”) del drydown che sembra segnare il passo dal fulgido simbolismo iniziale a una deriva decadente, colpevolmente lasciva.
Quantomai difficile, ermetico, carico fino al parossismo, la fragranza di Serge Lutens ben si adatta ai polsi del giovane Rimbaud. E infatti sembra quasi di vederlo, allo scrittoio di una bettola, con il lungo bel viso ovale; i riccioli castani cadono sugli occhi d’un azzurro freddo, mentre mezzo nudo scrive versi immortali al lume di una candela. Il sudiciume della stanza odora di perdizione di sé, di “voragini di azzurro, pozzi di fuoco”. Dopo il furore, non resta che la notte senza fine.
“Nelle ore di amarezza immagino sfere di zaffiro, di metallo. Sono il signore del silenzio.”
Da “Illuminazioni”
E il silenzio sa di Cedre.
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