Camaheu (Gabriella Chieffo) incontra La Metà di Niente (Catherine Dunne)
La volontà di cambiare passa attraverso la consapevolezza.
A volte ci aggrappiamo a quello che abbiamo, come se fosse l’unica esistenza possibile, anche quando fa male o ci impone compromessi ai limiti della sopportazione.
Dipingiamo una realtà immobile, con la paura di diventare traditori se anche solo pensiamo ad un seppur minimo cambiamento. E così lasciamo scorrere anni di vita, dimenticandoli nell’abitudine e fingendo che è quello che vogliamo. A volte la paura ci fa amare chi non ci riconosce né è disposto a farlo, che ci impone di essere ciò che non siamo: una mimesi per essere “brave persone” il cui costo è, però, una subdola infelicità mascherata da scelta. Perdiamo autenticità e come possiamo essere felici se non siamo autenticamente noi stessi?
A volte, le scelte più dolorose sono anche le più giuste e hanno il potere di liberare la nostra mente dalle catene che noi abbiamo permesso di costruire, contribuendo in modo determinante al confezionamento dell’abito da indossare che, guarda caso, calza perfetto come una gabbia.
Chi non si riconosce, almeno in parte, in questo quadro desolante quanto diffusamente reale?
E’ un’immagine fissa, scolpita nella pietra come un cammeo, che però abbiamo il potere di far mutare se cominciamo ad avere coraggio. Essere autentici, percorrendo il cammino che costruiamo passo dopo passo. E’ quello che fa ogni giorno Gabriella Chieffo, novità felicemente scoperta all’ultimo Pitti Fragranze, che non teme di definirsi madre, ingegnere, amante della cucina, spirito eclettico e inquieto, rivelando così di non voler stare in categorie precostituite, rompendo la conchiglia per mostrare la bellezza del cammeo.
E proprio Camaheu, una delle quattro interessanti eau de parfum lanciate a Firenze, sembra descrivere olfattivamente il coraggio di essere sé stessi, di rivelare la propria bellezza ed unicità senza temere la rigidità dei contesti, ma uscendone e giocando con essi senza preoccuparsi di venirne sopraffatti.
Camaheu, “cammeo” in francese antico, si apre con tocchi agrumati di bergamotto che dialogano con le asperità del pompelmo e con nuance verdi di edera per offrirci quella sfumatura fresco-amara tipica di un fougère. Ma Camaheu dichiara subito di non poter stare in un cliché e così le note di apertura vengono raggiunte da un cuore intensamente femminile che ruota attorno alle volute avvolgenti di gelsomino e rosa; note così esuberanti che quasi divorano quelle di testa per spostarci verso una composizione che strizza l’occhio ai Chypre di grande scuola.
Le note fresche sono un ricordo vago e lontano e siamo avvolti dalla morbidezza di due regine tra i fiori, vestendoci di una femminilità moderna che non dimentica le proprie origini: una tradizione di bellezza tramandata di madre in figlia, fatta di carattere e sensualità, di fragilità a tratti scomposte ma mai temute, anzi esaltate come immagine raffinata e mutevole di unicità.
Nelle ore Camaheu smussa alcune fragili asperità, fondendosi con il calore della pelle e rivelando un sentore rotondo di ambra, in cui guizza una sottile dolcezza di vaniglia, per poi adagiarsi sulle note rassicuranti di muschio di quercia, che danno l’ultimo tocco di carattere a questa fragranza, forse non semplice, che si lascerà amare da chi non teme il confronto col passato, ma che non rifugge la modernità e il coraggio di lasciare traccia di sé.
Camaheu parla di scelte precise, di amore per il ricordo, come parte fondante di ognuno di noi, ma anche di volontà di essere sé stessi, abbandonando le strade già tracciate, per addentrarsi nel giorno da costruire ad ogni respiro. Come quando le sicurezze vacillano e improvvisamente la vita cambia direzione e occorre tutto il nostro coraggio per affrontare il respiro successivo.
Un’apnea momentanea, un attimo lunghissimo che ci conduce ad un’altra realtà. C’è molto di Camaheu in La Metà di Niente di Catherine Dunne, bellissimo libro d’esordio e a lungo best seller mondiale. Anche qui si scrive di cambiamenti, di scelte dolorose quanto necessarie, di coraggio e fragilità umane, di femminilità come forza di ricostruirsi partendo dalla consapevolezza di sé stesse.
Catherine Dunne narra la storia di Rose, figlia, sorella, moglie, madre e infine, dopo un lungo cammino di scoperta, donna. Uno strappo e tutto cambia, ogni sicurezza vacilla nella vita di Rose e lei si ritrova faccia a faccia con la sua vita fatta di illusioni.
“La realtà era iniziata lunedì mattina alle otto. L’infelicità totale delle prime ventiquattro ore si era trasformata in una volontà di sopravvivere, di riuscire a venir fuori da quella storia. (…) Aveva provato una rabbia immensa perché tutto andava avanti lo stesso, insensibilmente, come se nulla fosse cambiato. (…) Veniva preparata la cena, gli alberi fiorivano, la gente smetteva di chiamare e a poco a poco, finalmente, il dolore trovava un posto dove vivere.”
Rose dovrà uscire dalla rigida immagine della tenera famiglia, per osservare con lucidità chirurgica la scena irreale che essa stessa ha contribuito a costruire per lunghi anni, sarà questo il solo modo che avrà per salvare sé stessa e i suoi figli da una deriva altrimenti inevitabile.
“Vent’anni dopo, ancora la spesa. Era questo l’unico aspetto duraturo di tutti i rapporti umani? L’acquistare e il cucinare cibo erano l’unica costante? La routine dava sicurezza. Se non altro, era familiare. (…) All’improvviso era terrorizzata all’idea di perdere il controllo dei prossimi vent’anni. Ora sapeva che l’unica cosa che voleva era vivere la sua vita, una vita che fosse finalmente plasmata da lei stessa.”
Rose ci racconta una storia di resilienza e di forza, dimostrando che è possibile oltrepassare il dolore e la paura per ricostruirsi una vita nella quale rispecchiarsi. Ascoltare sé stessi, ricostruirsi e scoprire che “i vecchi schemi potevano cambiare.” Perché si può cambiare, sempre, rompendo le modalità che non rispettano la nostra identità, come ha fatto Rose diventando padrona di sé, della sua vita e del suo futuro.
“Mentre aspettava che gli impasti lievitassero, ripensò alla sua vita. Da ragazza desiderava solo le cose che credeva avesse la madre. Poi aveva desiderato solo quello che desiderava Ben. Non si era mai data il tempo di capire che cosa voleva veramente, indipendentemente dagli altri. Ma questo avrebbe davvero fatto di lei una persona diversa a diciannove anni, e come avrebbe potuto esserlo? Rose si domandò come avrebbe potuto un bambino cercare di diventare un adulto diverso. Come si può imparare a plasmare sé stessi?”
E’ vero, è difficilissimo plasmare sé stessi, accordandoci al nostro spirito, mettendo in secondo piano le aspettative altrui, per far risuonare nei gesti la nostra vera identità.
“Un nuovo inizio. Non c’era nessuno a proteggerla. E nemmeno a darle l’illusione di proteggerla. Aveva la responsabilità di sé stessa e di altri tre individui, che non avrebbe tenuto nella bambagia come aveva fatto sua madre con lei. Ecco qual era la differenza. Ecco come si imparava a plasmare sé stessi. L’unico modo in cui li avrebbe protetti sarebbe stato metterli davanti a tutte le scelte che lei non aveva mai avuto, che non si era mai inventata. Non ne aveva mai sentito la mancanza per il semplice fatto che ne ignorava l’esistenza. Con i suoi figli avrebbe fatto di meglio. Gli avrebbe insegnato che c’erano scelte da fare, e non solo strade da seguire.”
La Metà di Niente ritrova così la sua interezza, tutto si ricompone nel respiro liberatorio di una donna che si rialza, impara a conoscersi, ad amare le proprie debolezze e la forza che sa trarre dall’esperienza. Ritrova nella rigidità del ricordo l’intaglio del proprio presente costante.
Come un cammeo da tenere sul cuore.
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